Skip to main content

Rivista Il Garda lóghi forèsti


Quando: 25 Otóbre 2023

Quél contà da Berto su la rivista mensìl "Il Garda" in italiàn, lóghi forèsti.

Un póchi de articoli del grande Barbarani che ne conta un pochi de giri tra el Trentìn e la sponda bressiana del Garda. No gh'è stà tante publicassioni de Il Garda, ma de artisti e giornalisti ghe n'è passè tra el 1926 e 'l 1932. Tra le diciture de questa rivista catémo:"Nel 1926 - RIVITA MENSILE - PATRONATO DELL'ENTE FIERA CAVALLI DI VERONA FIERA NAZIONALE DELL'AGRICOLTURA "Ufficiale per gli Alti dell'·· ASSOCIAZIONE ITALIANA PER IL MOVIMENTO DEI FORESTIERI ", SEZIONE VENETA E DEL GARDA. Nel 1927 " RIVISTA DEL COMITATO PROVINCIA LE PER IL TURISMO - VERONA". bóna letura!

ARTICOLI:

SIRMIO - armonie gardesane
Da l'articolo de la rivista "Il Garda"  del dugno 1927

Sirmio! Si cammina verso la punta della penisoletta, per una strada saliente all'oliveto in braccia a due laghi, che ne contendono l'ammirazione con amorevole e fraterna civetteria!... Lasciamo indietro una chiesa romanica in collina, che si intona con gli olivi, come l'avessero impastata con l'olio santo. Veh! Una villetta Catullo, decorata all' acqua di cedro; sembra una gabbietta da uccelli... Ecco, ne sono scappati due per il tetto. Saranno senza dubbio gli spiritelli vaganti di Catullo e Lesbia. Il sole del vicino tramonto fa capolino tra il pallido oliveto, l'eterno predicatore di pace tanto alla vigilia di N a tale, come la Domenica delle Palme. Oh, gli olivi! A vederli sotto certe luci ed in siti speciali, sembra di visitare una casa di invalidi, un museo di curiosità anatomiche, un campo di battaglia. Le smorfie dolorose dantesche (nei cartoni di Gustavo Dorè) degli olivi straziati dalla malattia della specie, monchi, storpi, sventrati, talvolta imbiancati come sepolcri, ora, pallidi di un verde ingenuo senza speme, ora superbi della propria singolare deformità, simbolo mostruoso di un esercito vincitore o vinto - tali smorfie ed atteggiamenti contorti e gesticolanti sono dell' umanità sofferente....

Sirmio! Dalla punta del breve promontorio, lo Spirito abbraccia di cuore tutta quella prodigalità d'azzurro d'acqua dolce, di una bellezza prepotente più che emotiva. L'anima si esalta, remando con l'ali dentro questo porto di felicità misconosciuta e Da pochi goduta (i soliti rari nantes in gurgite vasto}. Ed il Garda, sciogliendo le sue ondate nella scogliera piatta a scacchiere, spande e scande un passo di Catullo, il più comune ed il più a buon mercato (esente da tasse di soggiorno): "Penimsularum, Sirmio, insularumque ocelle...?" O Sirmione, pupilla, di tutte le penisole ed isole... (che nei limpidi laghi, e sull'immensa distesa del mare, sostieni e l'uno e l'altro Nettuno....). "Quam te libenter quamque laetus in visu..." (Quanto volontieri e contento ti rivedo...). Siamo alle grotte dette di Catullo, assai suggestive e mirabilmente sacrate alla leggenda. Invitano wuesti ruderi con misteriosi atteggiamenti e forme eroiche il viandante a penetrare nelle loro viscere. E su per gli archi ritti per aria come ponti naturali, attorno ai covoni le cui strombature conducono dentro sotterranei inesplorati, si avvicendano l'edera, l'ulivo, la prunaglia spinosa tutta una passione e un atnore, la vita in un mistero di bellezza, la morte in un mistero di storia... E sopra al gigante caduto si agitano gli olivi di pace e le burrasche che flagellano il promontorio. A Sirmione, le ombre della sera sfumano mute fra le strette viuzze medioevali. Il magnifico castello scaligero nella sua parte posteriore appare, traverso una leggiera nebbia, fastosamente illuminato. Un a festa da ballo, una corte d'amore, un ricevimento d'ambasciatori ?
... Appena, appena una seduta del consiglio comunale!

 firma barbarani pic

 
titolo barbarani divisorio



GITA AL LAGO DI MOLVENO SOTTO LE DOLOMITI DI BRENTA
Da l'articolo de la rivista "Il Garda"  genàr 1928

Nota. - " Il lago di Molveno a 821 metri s. m. è lungo Km. 3,800- largo in media Km. l, sup. Km. q. 3,27, profondo m. 119, la massima dopo il Garda nei laghi trentini, emissario in parte sotterraneo, che scarica nel lago di Nembia, poi nel Sarca, di grande trasparenza d'acqua. Pescoso. Per secoli fu causa di liti fra comuni e dinasti; ora è proprietà dei Conti Saracini di Castel Belfort ". (Guida d'Italia del T. C. I.).

Da Trento, novembre 1927.
Mattinata novembrina, bella ma frizzante. Ne lo dicono le guancie paffute ed arrossate al sugo di lampone, dei ragazzetti trentini, che si affrettano alla scuola su per il ponte sonoro di San Lorenzo. Sotto il Doss Trento, l'antica Verruca, attorno la quale Re Teodorico "moenia aedificare jussit ", riposa l'antica fonderia di Giovanni Colbacchini, il nostro invitante alla gita. Una ventina di campane, appena nate, si può dire, e non ancora fornite di battente, giacciono disseminate qua e là per l'ortaglia, come fossero state appena cavate di sottoterra a guisa di barbabietole. Hanno un color d'argento latteo, leggermente appannato da un alito di fede; sorridono intorno gruppi di santi e madonnine, aleggiano cherubini e sventolano in nastro le sentenze ed i motti, come nelle meridiane. Il sole sta levando tardi dietro il Marzola, affocandone i bordi. Poi che ci si avvia con l'automobile, eccoci d'un tratto a Cadine davanti alle leggendarie impronte della mano e del cavallo di San Vigilio, nella roccia. Più in là Terlago al completo col laghetto e il castello, e Vico Baselga. Prima di arrivare a Vezzano ci si additano due marmitte dei giganti: El Bus de la Maria Mata (o marm. Stoppani) e El Bus de lo speziale, che ha la forma traversa di un orecchio affiorante dal monte. A Vezzano, salutiamo la casa dov'è nato ltalo Conci, un glorioso caduto di Fiume. La lapide dice: "Questo segno di amore e di promessa i legionari di Ronchi a ltalo Conci". In paese su di una fontana marmorea, sormontata da un'aquila senza teste, si legge: "Restituita alle genti i tali che, dalla vittoria, questa fontana su cui il nemico segnò le fallaci speranze di sua tirannide, canta ora nei secoli la gloria d'Italia e di Roma". L'epigrafe fu dettata dalla medaglia d'oro Don Carletti, difensore del Passo Buole. Vezzano è a 286m. s. m. Il campanile è monumento nazionale. A Pedergnone, un obelisco ricorda la cattura di ventuno garibaldini bergamaschi, fucilati nel quarantotto al Castello del Buon Consiglio. Ed ecco il sogno dei due !aghetti di Massenza e Castel Toblino. Quest'ultimo sotto la costa del Monte Uliveto, coperto di lecci, ha l'espressione e la tinta di una magnifica acquaforte. Alle Sarche breve tappa. Il paesaggio è suggestivo e recondito. Il fiume si fa strada a stento fra i ghiaioni, sotto il ponte bianco. 

Entriamo nell'antico albergo della Posta. Sotto il porticato gira un corridoio a poggiolo, sul quale è appoggiata una fante leggiadra in cuffietta e grembiule candidi. Sulla parete esterna che dà sul cortile campeggiano le parole "Sala da pranzo", e fuori sulla facciata tanto di "Cucina nazionale ed estera - Specialità, vino santo ". Oh il vino santo di Castel Toblino! Nell'interno dell'albergo stanno attendendo, rifocillandosi, i caratteristici passeggieri delle diligenze di una volta, ora innalzate al grado di semoventi, non escluso qualche sacerdote. In un angolo il gruppetto di conduttori d'autobus in servizio con Pinzolo (Val Rendena), Tione, Trento, Riva, ecc. fanno colazione discorrendo naturalmente del tempo e degli orari. Fuori, passano e ripassano manovrando le messaggerie verniciate di fresco in celeste e blu, capeggiate da quel pupazzo di metallo, color arancione sfacciato, che è adibito al rifornimento benzina. Un brodo ed un bicchiere di Castel Toblino, ci mettono in grazia di Dio. Fuori, al di là del ponte, dalle orride gole del Sarca, tra l'erta di Limarò e il pan di zucchero del monte Canzole, che incombe sulla contrada, tira una brezza indiavolata.

Due amici della comitiva, il simpatico e colto Dott. Arturo Castelli del Club Alpino Tridentino ed il valente Ing. Elmo Anesi, che mi ha gentilmente favorito le belle fotografie che adornano queste note modeste, ci abbandonano per una progettata escursione. Li ritroveremo al lago di Nembia presso Molveno. E così, 10 e l' ottimo Colbacchini, oroseguiamo l'interessante gita. L'auto guadagna veloce la rampante strada di Limarò, tra burroni profondi e boschi di larice. Il ponte al Doss dei Servi ci invita ad una sosta doverosa. Questo ponte sul Sarca è il secondo in altezza, in Italia, dopo quello di Santa Giustina, sul Noce in Val di Non. Il ponte è in ferro, slanciato ed elegante. Le testate di pietra viva sono adorne di quattro delfini. A sinistra in fondo si vedono i Bagni di Comano addossati sotto il monte. E adesso arrampichiamo ancora verso la comunità di San Lorenzo, zona pittoresca ma povera. Son mantenute ancora in onore francescano, le abitazioni coi tetti di paglia. In una di queste contrade, a Dorsino, una leggera panna mi mette in grado di ammirare dei vecchi affreschi del quattrocento, in una chiesetta romanica. Lasciata indietro anche la comunità di San Lorenzo, infiliamo una strada nuova, ardita, con frequenti gallerie e volte a capanna nella viva roccia. Ad un certo punto una lapide parla chiaro:
~' Questa strada - dall'esercito italiano liberatore - della prima metà del 1919 iniziata - da Governo, Provincia, Comuni - nella prima metà del 1921 compivano. - Ciò che il lungo dominio austriaco non fece - l'Italia romanamente attuò". Ci troiamo in una solitudine quasi paurosa. Guardando fuori dal muretto della strada, si spalanca una vallata arida, un deserto disseminato di massi erratici alluvionali. Nessuna vegetazione. Soltanto il Bondai, piccolo emissario del lago di Nembia, mostra un filo argenteo. E questo rigagnolo raggiunge in fondo in fondo un paesino detto Moline, che si potrebbe portar via in una sporta. La strada fu proprio romanamente compita, come dice la lapide, dall'opera italiana. E commenta il fonditore: "todeschi de robe drite no ià fato altro che le spine de le fontane, le uniche che dovarìa esser storte".

"Ci troveremo al laghetto di Nembia, avevano detto i due escursionisti; là c'è un bel alberghino. Il sito c'era e delizioso, ma chiuso come tutte le cose belle fuori di stagione. Qualche vuota scattola di sardine, poteva significare ad un osservatore da poco, che c'era stato qualche focolare di villeggianti modernissimi, ma basta. Il laghetto di Nembia, purissimo come uno specchio al mercurio, da certi suoi occhietti ribollenti e profondi di polle fontanive, parea ci prendesse in giro, onde non restò altro che di soffermarsi un poco a guardare la targhetta colorata, con il rilievo di una pallida ed impolverata bottiglia di birra. Ecco tutto il comfort. L'alberghetto era quasi nuovo, una casa bianca squadrata con comodità, persiane verdi, un terrazzino pensile dal quale si gode la vista del laghetto, lungo un mezzo chilometro. Passano ogni tanto carrettelle spinte a mano e cariche d'erba secca strappata con fatica lenta
alle anfrattuosità della roccia, nei boschi, e pesanti traini di carbone di legna, al cui passaggio la purezza del laghetto ha dei brividi, come di terrore. Invano si chiama verso la montagna, che non risponde. Decidiamo così di fare una scappata fino a Molveno, per ordinare almeno la colazione in tempo. Dopo il laghetto di Nembia si affacciano a distesa sopra una breve landa ingombra di grossi macigni franati dalla montagna, delle piccole malghe o casàre, ricoveri di bestiame, ora abbandonati, ma precinti ognuno da una riga di pietre, che serrano legato in tal grossolana maniera un praticello color smeraldo. L'assieme è originale. Qualcuno di questi ricoveri, ha il Cristo inchiodato sulla porta sgangherata. Ed ecco le prime avvisaglie del mirabile gruppo di Brenta. Sono le vette del Pizzo Gallino. A mezzodì in punto, il lago di Molveno, il più bello dei laghi trentini per la sua vasta superficie di piscina azzurra, degno acquasantino architettato dalla Natura, per una cattedrale di colossi, offre la sua bellezza ed i reconditi eccellenti salmerini e tinche. Il lago comincia a maneggiare la sua tavolozza, dal tradizionale verde bottiglia chiaro dell'acqua a fior di sabbia, fino al verde erba, all'azzurro, al color piombo. Le cime del Brenta, vanno a mano a mano rivelandosi, madreporacee, sul fondo terso cristallino del cielo, e si riflettono nel lago. Il sole battendo sul fogliame rosso del bosco, sparge chiazze iridiscenti qua e là sullo specchio delle acque. Noi si costeggia all'ombra e per questo lo spettacolo si abbella sempre più e si raffina nella nostra anima. Ad uno svolto della strada, che d'intorno a noi sono tutte spaccature di broccatello, rosso fiammante, il gruppo di Brenta appare in tutta la sua possanza: il Pizzo di Gallino, Cima Roma, Col dell'Altissimo, Cima Tosa, Tor di Brenta, Conca dei Sette Fulmini, ecc. ecc. - E' una giornata eccezionale, rarissima - commenta il Colbacchini. - Tutto si fonde bene oggi, montagna, lago, sole, aria... Sentendo parlar di fusione, mi sovvennero le campane appena nate, della mattina, e vedevo i campanili in attesa delle loro comari, con le avide occhiaie sbarrate e vuote... Molveno (a 864 m.) appare come sparso, con le case chiare, sul tappeto verde di una prateria. La chiesetta si mostra infreddolita e serrata fra il mucchio più fitto del fabbricato. Un ponte solido sulla spiaggetta, lascia passare un corso d'acqua che si assottiglia più in su e poi si allarga fra le pareti a picco del monte e forma come un altro laghetto recondito e oltremodo romantico con qualche macchia di salici. Ordinata la colazione per il pomeriggio, ci intratteniamo con l'albergatore,vecchia guida.

Il lago è alimentato da tre sorgenti: Rio Bondai, Rio delle Seghe, Rio Lambin. - Si fa buona caccia da queste parti? I caprioli, in fin d'autunno, scendono dal monte Gazza, traversano il lago a nuoto e salgono a svernare sulla Paganella. Mi par di vederli con le testine fuori, le graziose bestiole! Ma è ora di andare a rilevare gli amici al laghetto di Nembia. Rifacciamo i sei chilometri di percorso, e dopo un' oretta di attesa li vediamo arrivare accaldati con dei grappoli d'uva fragola in mano. La mattinata era stata caldissima con1e d'estate. Che cosa avete ordinato da colazione? - Polenta e uccelli, e trotelle (salmerini) al burro. Tutto ciò che di buono può dare questo incantevole lago. Via! Rigusto la gioia della nuova visione, che si è già di molto cambiata. Il lago ha dato un'altra rimestatina alla tavolozza. I verdi non sono più cupi, perchè è ora di sole e di merenda. Nei piccoli seni sotto il bosco assumono un'aria di mistero, verde anch'esso come quello della speranza, che è anche verde di malizia e di insidia. Dove cessa la rifrazione dell'ombra del bosco immanente, ecco tratti di puro ciel di cobalto, riflessi nel lago così, che par di guardar fuori di una finestra aperta. E il gruppo di Brenta, imperturbato, solenne, senza un bioccolo di nuvola, che ne oscuri o sfiori la fisionomia madreperlacea, si aderge ed incombe come un mito pauroso. Giove, che regge su di una mano la "Conca dei Sette Fulmini"! Questi giganti naturali, sembra che talvolta sieno tormentati od affiitti dalla necessità, dal bisogno impellente, fatale, di qualche gioiello di smeraldo, un laghetto come questo di Molveno, a mò d 'esempio, o di Misurina, onde mirarvi dentro o col sole o con la luna, la loro prodigiosa, fantastica longevità; un laghetto, un ghiacciaio, una selva dove gli spiriti folletti della montagna, vadano a bagnarsi, intanarsi a caccia di ninfe o di fauni da intimorire o beffare con le loro burlette ! La colazione fu degna del nostro solido e ritardato appetito; ma di mano in mano che questo diminuiva, s'affrettava a calare anche la sera. Lasciamo Molveno per salire alle Due Croci, ma non perdiamo il fantastico lago che ci ha rubato il cuore. Ne rivediamo dall'alto dei sacri emblemi il promontorio di prati erbosi e vivi, che s'addentra in esso e la chiesetta di San Vigilio, dove vengono portati i morti della montagna, le vittime alpine! Tutto attorno, il piccolo seno vela note di mistero. E' la sera che s'affretta, movendo in noi note profonde di malinconia, mentre le negre cornacchie con lente e larghe remate di volo, sembrano battere il tempo in codesto notturno lacustre. Ah! lassù le cime del Brenta, si arroventano. Le madrepore del mezzodì, diventano banchi di corallo...

Procediamo in pieno bosco di abeti e ci viene segnata qua e là per un buon tratto la grande futura strada Mantova-Molveno-Merano, che anche essa qui sarà tracciata nel più folto del bosco. Si trascorre fra gruppi di cespugli ed alberelli, che vestono tinte dal color rosso vino, al siroppo di arancio. Siamo nella Selva di Andalo, preludio alla sinfonia autunnale del poema della Val di Non. Un'ultima occhiata indietro alla famiglia del Brenta, con il Brenta Alto ed il Campanil Basso, che misura ben trecento metri di ascensione e non pare più grosso di un torrione dei nostri. Fu su quest'ultimo, che il dodici agosto di quest'anno trovarono orrenda fine due prodi ed intrepidi alpinisti fra i migliori: Giuseppe Bianchi e Pino Prati. Anche i loro miseri resti furono portati giù alla chiesetta di San Vigilio. Ecco Andalo (m. 1100) con il capriccioso laghetto che ora è prosciugato e nel fondo ondulato offre il curioso aspetto della sabbia nelle dune o quello del pantano di una bonifica recente, ed è coperto di uno strato sottile d'alga tenera, appena in erba. In primavera questo lago si sveglia ed alimentato com'è dalla sorgente madre, cresce e si eleva fino ad allagare la strada che corre su di un argine alto ben sei metri. Al valico d'Andalo, le foglie secche attratte dall'auto ci corrono dietro scrosciando, come i monelli della strada. Entriamo nella comunità di Cavedago; anche qui una chiesetta antica, monumento nazionale, e più avanti in fondo a una valletta la curiosissima disposizione di tre ponti, i cui anelli sono incastrati l'uno dentro l'altro, come un giuoco cinese, in arco ogivale. Il più piccolo è romano, il secondo medioevale, il terzo è l'attuale sul quale passiamo. Ora incomincia una lunga serie di gironi rapidi e bruschi nella voltata, che ci porteranno a fanali accesi, giù per questa meno frequentata parte della Val di Non, fino alla Rocchetta e cioè alla biforcazione fra le due strade, quella che dalla Val d'Adige porta alla Mendola ed a Cles e questa che mena su fino a Cavedago e Molveno. In fondo rumoreggia il torrente Sporeggio, che prende il nome da due paesi: Spormaggiore e Sporminore. Passiamo in mezzo a questi due comuni in vista di Castel Belforte e Castel Rovina, profilati nel chiaror della luna nascente, e ci fermiamo a Mesolombardo, ospiti dei fratelli Trentini, che ci mostrano le loro vastissime e ben tenute cantine e ci ristorano con un delizioso chiaretto rosso, che mi si fa conoscere per la prima volta sotto il nome di battesimo (per carità non equivochiamo) quello di Vin Lagarino!

 firma barbarani pic
 
titolo barbarani divisorio

 

IL MIO NATALE SUL GARDA
Da l'articolo de la rivista "Il Garda"  del dugno 1927

Il mistero della bocca aperta e della bocca chiusa
Siamo partiti da Verona, io e mia moglie, l'antivigilia di Natale, che nevicava. Una specie di bufera in sordina, picchiettava i suoi diaccioli sulle 'vetrate del !treno, che porta a Caprino Veronese; e mano mano, che si procedeva verso la montagna, la neve aumentava di intensità e di spessore. Ma alla biforcazione dell'Affi-Garda, la mitezza climatica del lago ebbe la sua tradizionale ragione sulla neve e così la previsione di un suggestivo Nata!le in bianco, svanì. Durante il viaggio, mia moglie serbò un mutismo da far gelare un controllore e dopo molto almanaccare sul fenomeno, m'accorsi che essa teneva semichiusa la.... lingua, nella valigia, una grossa lingua salmistrata con le sue proprie mani. Al solito albergo delle Tre Corone, che stanno ampliando, sostiamo un poco per la refezione e naturalmente da quei grandi signori che siamo, si domanda un carpione addirittura! Lì presente, era il vecchio ed amico pescatore Maffezoli, che ha raggiunto gli ottantasei anni ed interloquisce per proverbio:
Tempo di vigilia,
pesce non se ne piglia!!.
Fuori sul golfo, annerito ed irato, volano bassi due gabbiani cinerei con larghe remate golose di cibo ed arriva l'autobus di Peschiera con un palmo di neve sull'imperiale. Arriva anche una modesta, ma appetitosa trotella, appena pescata nel torbido temporalesco e poichè giunge del pari l'amico prof. Ottorino Mazza, col suo cappellaccio giostrale, che ci aveva avvistati all'arrivo, ecco che appena gli dà nell'occhio il pesce sentenzia:
- Questa chì l'è una truta, parchè l'è morta co la boca verta.... El carpion el more co la bocca serada!
- No se poi sbagliar....
A viaggiare si apprende sempre qualche cosa di insospettato. Infatti alcunchè di simile mi suggeriva l'esperienza di un cacciatore e buon gustaio:
- Se al albergo te ordini un tordo e i te lo porta col beco taiado di si che l'è un storlin uno storno, uccello di poco conto, come gusto. Anche i tordi muoiono col becco chiuso.
-Ma par cosa no ve fermèo qua a passar Nadal?
- È impossibile - siamo impegnati con una famiglia amica di Bogliaco, che ci attende stassera. - Pecà! g'avea in mente tanti bei progeti!
- Ci fermeremo nel ritorno !
Si monta in piroscafo - il "Verona" che ci mostra, con forzata malagrazia, come si fa a ballare, da Garda a Gargnano. Sul molo di Gargnano gli amici Alfredo e Teresina Rodolfi di Brescia ci attendevano preoccupati del maltempo assieme alle loro due graziose figliole Camilla e Franca. Quest'ultima ci annuncia con la voce di argento vivo:
- È arrivato, sai, il panettone da Milano, che il poeta Piero Preda ha inviato a Berto. Sembra un capannone. Papà ci ha impedito di toglierlo dalla cappelliera, per amor dell'uva passita e dei cedrini. C'è anche un biglietto coi baci per tutte le signore! Si monta in automobile e poco dopo ci troviamo accomodati al caldo nell'elegante e delizioso appartamento o dei Rodolfi, presso l'antica villa Samuelli ora appartenente alla vedova signora Giulietta, che è poi la rispettiva sorella e cognata dei Rodolfi. La serata passò attorno al caminone della vecchia cucina a pianterreno, assistendo alla distruzione di un decrepito pollaio, che dopo aver dato i suoi ultimi inquilini, per il sacrificio di Natale, fu dannato alle fiamme. Il macabro scoppiettio di quella carcassa, narrava le paurose notti trascorse, quando la volpe faceva la sua comparsa nei dintorni, e le spedizioni ladresche e le epidemie mortali; ma anche gli amori, i litigi dei galli, ai quali assistevano le concubine con il cuore e la zampa sospesa ed i risvegli rumorosi e canterini in faccia al lago! Nel salone di sopra intanto le signorine allestivano l'albero di Natale per la vigilia.

Mattina di vigilia
Dopo la giornataccia precedente, la mattina della poetica vigilia è quale la può sognare un innamorato delle tradizioni più pure. Tutto all'intorno è luce, pace, amore nelle forme più estetiche e tangibili. E c'è tanto tepore nell' atmosfera, che non fa punto meraviglia (spalancata la finestra, che dà sulla strada) lo scorgere al di là di un muro di cinta, adiacente al classico giardino statuario della Villa Bettoni, un giardiniere affaccendato a raccogliere fasci di garofani piantati e cresciuti all'aria aperta... Su per la montagna, un candor di colomba la chiesetta di Sasso. Più sotto un gruppetto di case: Musaga, il colombaio. A sinistra, in collina la parrocchiale turrita di San Piero d'Agrino, a cui fanno capo i devoti di Bogliaco, Vlla Vetro, Zuino e Fornico. A destra, verso Gargnano, sulla linea alta dei Dossi, altro candor di colomba, nella chiesetta di Santa Maria di Navazzo {parrocchiale di Liano e Formaga). Poi alto, sul bordo dell'Altopiano le ville estive ed i parchi dei Bettoni e Feltrinelli e l'eremo di San Valentino, un punto luminoso fra le nude roccie del De Nervo, ed ultimo di tutti quale serntinella avanzata, al di là di Gargnano, il selvaggio Muslone, patria dell'ebanista Girolamo Comboni. Questo per la parte montana. A sinistra della villa, invece, sfoggia per iscorcio la sua magnificenza, la principesca dimora dei conti Bettoni, con la folla di statue sui tetti e i tesori d'arte nei saloni, già descritta ampliamente nei primi numeri della nostra Rivista. A destra, la lunga e pittorica insenatura di Villa, fino al promontorio di Gargnano, costellata di villini e di terrazze, sotto l'egida di alte costruzioni nuove e giardini e serre e la chiesetta oltremodo graziosa dei frati di San Tomaso, con la scala Santa e il vetusto romanico San Francesco e la parrocchiale di San Martino, solida e dominante conclusione di tutto il paesaggio.Dal Belvedere di Villa Samuelli si gode una superba visione di tutto il groppone del Baldo, stracarico di neve nella parte superiore, tanto da scambiarlo per un vero ghiacciaio, nei punti più scoscesi dove i valloni e le Pale sono in rovina. La Villa è fascieta per tutto il primo piano da urna ricca ringhiera a pancia, fatta di lamine larghe in ferro battuto, intersecate da grossi pomoli di antico bronzo. La più gran parte di detto poggiuolo prospetta il lago che vi si frange sotto nei grossi macigni, ed è assai gustosa ed originale una Madonnina nella sua casetta di legno assicurata su di un palo. È un quadretto di puro gusto veneziano. Fan da corte d'onore un grande cedro del Libano ed una rispettabile magnolia. Nell'attiguo orto-giardino ogni ben di Dio, pergolati e fiori. La parte interna della villa poggia su di un solido porticato a colonne; una rampa selciata sale verso il portone d'uscita, dai serramenti rabescati ed è fiancheggiata da sei banchine di pietra grigia, che ricordano le costumanze paesane dei fittavoli di un tempo. Tutto l'assieme è confortevole segno di comoda se non fastosa opulenza. 

Passeggiata a Gargnano
Uscendo dalla villa a noor prima di esplorare Bogliaco, che appena, appena ricordavo dopo una tregua di vent'anni, diedi una capatina fino a Gargnano La gita è breve, poco più di un chilometro, e la si gode nella forma più semplice e svariata tra specchietti e sprazzi di lago e quadretti e luci di collina. Sorpassati i vecchi "carafai" o cantieri di barche, si arriva ad un bivio oltremodo invitante, tra la nuova strada ·orredata di ville sontuose e di vasti casermaggi presidiali, e l'antica via bassa, che accede alla contrada di Villa. Il bivio in questione è rappresentato da un portoncino campestre, che mostra il suo occhio chiuso sotto un ciglio di tegole e che porta scritto da un lato la dicitura: "Villa" e l'altra: "Al Sole". Trattandosi di un bivio, sarebbe stato opportuno interpellare una statua fra le tante della Villa Bettoni (gran fatto, che non ci sia un Ercole qualunque lassù !) ma io ho preferito scegliere la via più bassa, quella del "Sole", quantunque ci sia più spesso l'ombra. Così, movendo a destra e procedendo pianino per non perder niente di queste rive lacustri, che ogni tanto destano sorpresa e diletto, mi sono trovato sul piazzale di Villa-Gargnano, tra una discreta profusione di reti distese al sole. Giova notare, che questo paese, con Bogliaco, rappresenti una delle poche colonie di pescatori che vivono di tale industria primitiva ed originaria in uno con Sirmione, Garda, Torri e in minor grado Castelletto di Brenzone. Sul piazzale di Villa si legge questa lapide, murata nel 1904: "i terrieri di Villa Gargnano con memore nconoscenza al munifico loro benefattore Marco Valenti (164B-171 6). Alla sera mi si spiegò, che questo Valenti, aveva testato un lascito di lire cinque annue da distribuirsi ai poveri del paese, nel tratto di giornate fra Natale e l'Epifania. Come si vede, anche questa notiziola fa parte del mio Natale sul Garda. Del pari, una visitina alla vetusta chiesa romanica di San Francesco, mi rivela tre grandi tele che G. B. Simeoni attribuisce al Cav. Celesti, a Giovanni Grossi e Bertancio da Salò. Rappresentano esse a sinistra l'Adorazione dei pastori, a destra l'Adorazione dei Magi, nel mezzo la Fuga in Egitto. Annesso alla chiesa si ammira un bel chiostro suggestivo, con hammenti romani infissi nel muro. Su uno di essi si legge: "Neptuno Sacrum". Lasciata la chiesa di S.Francesco, una svolta in pendio porta subito al centro. Lo stemma di Gargnano è una lupa rampante con un giglio nella zampa destra davanti. Sotto il portico del Municipio si legge questa breve lapide: "Austriaca flottiglia - Gargnano da itali volontari presidiata - bombardava (2-4-6-19-20) 1866. Secondo i naturalisti, esistono alle falde della montagna sopra Gargnano, congerie di ghiaie e sassi di imponente volume, alcuni dei quali sono di porfido rosso, alrtri di pietre delle fornaci ricchissime di mica dorata e argentina qua e là sfiorite con ocra gialla. Tra le varie industrie fiorisce oggi quella dell'olio spremuto dalle bacdhe del lauro. Una volta, mi diceva l'amico Rodolfi, di queste bacche non si sapeva cosa farne. Fu uno di Gargnano, che saputo come in Grecia ne avevano bisogno cominciò ad importarne, prima della guerra. Allora, si pensò di inviare laggiù una commissione perchè studiasse lo sfruttamento del lauro ma non partì mai. Ora esiste un grande oleificio per il lauro, il cui olio è un eccellente lubrificante ed anche un efficace medicinale per gli artritici. Molte bacd1e sono accaparrate da una fabbrica di saponi di Borgonuovo e codesto sapone al lauro va quasi tutto in inghilterra. Il pannello residuato dai frantoi, viene somministrato al bestiame. Se si passa una mano sulla schiena di una di queste bestie, diremo così... laureate, se la ritrae unta e odorosa.

A Bogliaco
Dopo colazione, sono salito alla chiesa di San Piero d' Agrino, per una curiosa e abbastanza ripida stradetta alpestre, ottimamente selciata ed incassata fra i muri e la roccia. Questo accesso alla chiesa, era una volta proprietà privata dei Rodolfi e su in alto a destra domina un "torrazzo" detto "Bella vista" di pertinenza degli stessi, con serra-giardino. Un tempo questa località era tutto un bosco di lauri. La chiesa di San Piero, possiede un martirio di S. Stefano, attribuito al veronese Brusasorzi, che ha dipinto pure giù nella chiesetta SS. Martiri. Vicino a San Piero d'Agrino, esiste un altro tempietto detto del Crocefisso, attorno al quale corre una leggenda. Molti anni or sono alcuni pellegrini venutida non so dove, s.ostawno in una specie di casa ospitaliera dei Rodolfi, e vi depositarono un crocefisso da loro ritenuto miracoloso. Infatti partiti i pellegrini, il Crocifisso lasciò la casa anohe lui e si collocò nel cavo di un olivo. La mattina dopo, credendo ad un qualche scherzo, quei di casa riportarono dentro il sacro cimelio e lo chiusero a dhiave. Ah sì ! Il Crocifisso la notte stessa riprese ii suo eletto domicilio e così per due volte. Sparsasi la voce e gridato il miracolo, in men che non si dica e mercè la buona volontà di quei montanari, l'olivo fu tagliato all'altezza della nicchia, dove s'era allogato il Crocifìsso e lo si ospitò fabbricandogli attorno il tempietto. Il bello si è, ohe dopo qualche giorno dall'erezione della chiesa, secondo l'allucinazione di qualche devoto, tutti si accorsero, che al buon Crocifisso così riparato dalle intemperie erano cresciuti i capegli. Ma non ci fu bisogno del barbiere. Nel ritorno giù per le colline del Monte Castello, sostai ad una simpatica palazzina, all' insegna del "Cavallino", una pulita frasca di "Vi Bu" con due giuochi di boccie in azione. Nell'interno mi dà nell'occhio una pappardella in versi che comincia così:

"Tutte le feste al tempio,
mentre pregavo Iddio...
m'accorsi che a far credito,
ci rimettevo io..."

Sulla porta gorgheggiavano al sole alcuni lucherini in gabbia. I giocatori bocciavano a più non posso e segnavano i punti su due tabelle quadrate di legno, con su dipinto un orologio, con le ventiquattro ore e le sfere, una rossa e una verde, per le due parti in giuoco. Questo si chiama saper perdere il tempo, pur segnandolo coscienziosamente. Una occhiatina sommaria a Bogliaco, pittoresco in collina, grazioso ed affascinante sulla riva, con le sue case e vlle d'ogni classe, la larga piazza ed un grande e solitario albergo, semi addormentato nel Parco. Poi l'abbagliante visione del palazzo Bettoni, che richiama alla lontana Villa d'Este sul lago di Como. Il monumento nazionale è dell' architetto Cristofoli di Verona. Della famiglia, il Co. Cado Bettoni fu un distinto naturalista. Sculture del giardino sono pure del veronese Felice Cignaroli.

Altre famiglie nobili e cospicue posseggono o possedevano ville e beni a Bogliaco come i Zuradelli, i Madinelli, Fiorini, Carattoni, il Barone De Moli di Mantova, e quei Rodolfi che contano fra i loro avi generali e monsignori. Nel secolo scorso esisteva anche un piccolo Ginnasio aiutato dall'O.P.Commissaria Bontempi. Mi si mostrano le antiche scuderie della Mazzoldi con quattro mute di corriere che andavano fino ad Edolo, Ponte di Legno in Valcamonica. In Via delle Fornaci, antichissima, si ammirano due vecchie palazzine di rinascimento veneziano, che portano traccie di pitture a fresco, ancora significative. Da una finestra di esse, ne scappa fuori uno staderone ancora in uso, che serve da pubblica pesa. E' interessantissimo. La vite arriva fino ai quattrocento metri ed il Colle di Torni co sopra la parrocchiale dà un ottimo vino di Riviera. Bogliaco, a detta delle antiche Guide appare la parte migliore e più bella del golfo di Gargnano.

"La pastorela"
La cena di vigilia fu assai appetitosa: pasta asciutta coi gamberi - lumache al Madera - carpione alla maionese - ed altre ghiottonerie. Ma ecco che sul finir della cena agile ed improvvisa una nenia di campane, una gentile cantilena di puro stile natalizio parte dall' alto della chiesa dei frati di San Tomaso di Villa vicina, sull'aria di:
"Piero, Piero - para le pegore,
Piero, Piero pàrele a mi..."
La "pastorela, la "pastorela" - grida la formosa Signora Teresina e spalanca un momento la finestra. Ed ecco che la cantilena si diffonde più chiara ed argentina, mentre tutto all' intorno pare si diffonda una bee di presepio ed uno scalpiccio sulla strada ed un mormorio annunci l'arrivo dei pastori. E la "pastorela" scandisce:
"Dormi non piangere mio bel bambino, dormi non piangere mio buon Gesù...!
che sarebbe la "ninna nanna" pastorale che si usa cantare nelle chiese e che il popolino del contado in altri tempi di indigenza o di carestia, uniformandosi all' ambiente miserello della grotta, ci tramandò così parodiata sulla stessa aria:
"Taca su sta poca minestra,
Sta pignata de riso e fasoi...
Tute le sere semo a questa,
'Nar in leto, ma sensa ninsoi..."
che in altri siti di Lombardia si ispira a sensi di carità anoora più adatti alla circostanza:
"Taca su sta poca manestra,
taca su sti risi e fasoi...
Dàghene un pochi a la siora Francesca
Dàghene un poca anca a so fìoi!
Codesta "pastorela" non era dunque, che l'annunzio della messa di mezzanotte, che si sarebbe cantata nella predetta chiesa di S. Tomaso, dove i frati possiedono anche un convento. ll resto della serata adunque, si passò nel vasto salone centrale di casa Samuelli, in cui la signora Giulietta fu la settima sposa, vedova del Cav. Uff. Francesco Samuelli già Sindaco di Gargnano. Sul caminetto bruciava un grosso ceppo di lauro, che diffondeva bagliori rossastri sopra le quattro grandi tele delle pareti, dipinte dal Celesti e sul soffitto decorato dal carro di Fetonte. In un angolo le tre fanciulle allestivano l'albero di Natale, davanti a un gruppo di ragazzetti attoniti. Verso la mezzanotte sono scappato su dai Frati di San Tomaso ad ascoltare la messa di Natale. Fuori della chiesa, un gruppo di bambini stavano soffiando sopra un mucchietto di paglia e legna, per scaldare simbolicamente i pannicelli al Bimbo Gesù. Ma la paglia era umida e nuvole bianche di fumo avvolgevano la brigatella che starnutiva.
- Siamo fra le nubi! - concluse uno, e si eclissò.Nell' interno intanto si arrivò all'elevazione e per un quarto d'ora si spande per la chiesa e fuori, una dolcissima musica... È la "Pastorella" che ritorna. Ma stavolta la campanella taceva. Un fraticello pizzicava l'arpa; c'era il violoncello e un mandolino, accompagnati dall'armonium. Tutto nascosto, nella penombra. Commovente! In un angolo il presepio! No so qual meccanismo funzionasse, se cinematografico od altro, ma dentro una specie di globo velato gli è certo che giravano vorticosamente tre cavalieri, i tre Re Magi, e sovra di essi volteggiava serpeggiando la cometa. La quale, talvolta li precedeva, tal altra restava indietro, riprendendoli. Chi sarà arrivato primo quella notte?

Natale
La mattina di Natale, non ha nulla da invidiare alla precedente per splendore di luci e di panorama. Il Garda è tutto fuso col Baldo e sulla riva opposta una nebbia azzurrognola che fa da cortina di unione fra lago e montagna tiene prigionieri e cascine e villaggi. Ieri era il fraticello di magro, che batte la campana della "pastorela" oggi è la Signora trionfante e pomposa, che porta alla triplice messa della parrocchiale di Gargnano il suo abito nuovo. Si va a messa grande, anche noi e si gira alle spalle del paese, prendendo il nuovo tronco di strada, che dovrà allacciare la sponda Bresciana a Riva di Trento. Il lavoro procede rapido a grandioso per solidità e parvenza. Su uno dei carrelli abbandonati dai lavoranti è scritto a grandi paroe in minio rosso: Buon Natale! La parrocchiale intitolata a San Martino, è a tre navate ed è ricca di marmi fra cui, scrive il Volta nella sua Guida del Carda, "è notevolissima una breccia a
fondo giallognolo e cinerino, sparsa di frammenti neri, emula dei rari marmi deli' Andalusia; vi loda quadri del Sinonio (1619), di Angelo Primato, di G. B. Casazzi e del Bertamio da Salò. Fu rifatta nel 1836 sopra disegno del Vantini, nella parete esterna". Terminata la funzione solenne il popolo minuto si affolla al Presepio. Da un travicello della Stalla, pende una lume di ferro battuto a becco d'anitra, col lucignolo a olio acceso. Questo particolare primitivo dà nell' occhio ad una sposetta che tiene in hraccio il suo bambino, la quale esclama:
- L'è propio issè come l'è nassù con quela lume lì istessa! Ed il marito un po' beffardo e materialista:
- Ghe s'èrito ti quando l'è nassù?

firma barbarani pic

 titolo barbarani divisorio


PAESAGGIO DELLA VAL DI RABBI NEL TRENTINO 
Da l'articolo de la rivista "Il Garda"  del agosto 1930

Così ci saluta un antico quadro delle Ore, all'imbocco della valletta di Rabbi, appena varcato il Ponte d'Asi o a pochi passi da Malè in Val di Sole (Trentino). Le meridiane sono silenziose e meno malinconiche del monotono ticchettare del pendolo, ma vantano la saviezza e la filosofia di un fraticello. Magras {750 m.) guardiano di detta valle sito alla sommità di un'ertissima rampa è un guazzabuglio di casolari e portici di antiche case con ingenui saggi di bifore; e qua e là fra il chiaro e il buio, ciuffi di gerani son molto più graziosi e parlanti delle nordiche tendine. Il tugurio più meschino diventa una reggia quando è fiorito di gerani e di garofani. La chiesetta del luogo appare pur vetusta, col tetto a squame ed il protiro sostenuto da colonnine di legno scolpito. Tra versati due sottopassaggi scuri ci troviamo come per incanto nella valle stretta ed ombrosa, foderata di pini ed abeti a tu per tu con un torrente ribelle e chiassoso, vero tipo di natura montana ad acqua e musica perenni, rioco di salti e di vortici, folleggiante attorno ai massi, a volte ciarliero e brontolone, a volte furibondo, tremendo come rivela il suo nome di battesimo: Rabiès! La macchina sale festante nella frescura, tutta per noi ! E ogni tanto qualche rado casolare serio e stupefatto, nel bel mezzo di un dosso prativo, tinto di rossiccio scuro, quello dei vecchi mobili di noce, espone all'occhio del passante che talvolta non ci abbada, la sua costruzione ingegnosa, la sua struttura bizzarra, complicata, estetica sempre, pratica e convinta dalla esperienza dei secolari antenati costruttori. E i "tabià" tipo Cadorino o Valdostano, per il deposito del foraggio, senza porta d'accesso, sembrano cataste di travi, dei roghi vuoti internamente, quasi pronti all'accensione, che spesse volte, purtroppo, non si fa attendere. A metà strada, troviamo una gran croce color marrone, alta più di quattro metri, alla quale sono appesi, come ad un albero di Natale (triste ma profetica antitesi) tutti i doni, che i Giudei offrirono a Nostro Signore per la sua mondiale Passione. Ne contammo una trentina finamente sbozzati e malvagiamente coloriti di una tinta celestina, che strilla a parte la sua disgrazia. Il lettore penserà, che di queste croci se ne trovino ad ogni piè sospinto in montagna, ma creda a me, che manca sempre qualcuno di questi simboli dolorosi.
Al Cristo di "Pracorno" non mancava proprio niente, nemmeno il sacchetto dei trenta denari, che potrebbe far gola a qualche viandante credulo e baggiano. Si traversa una zona di rovine basaltiche. Tra macigno e macigno, sul Rabiès, sono lanciati dei ponticelli neri, volanti, tanto graziosi quanto necessari. E ancora "tabià" chiusi, alla ventura, da grate artistiche di legno, che hanno del Conventuale. Una casa commista di legno e muratura stracarica di loggie e scalette di legno, che si rincorrono rusticamente aperto per ogni verso della facciata, vanta dalla parte del cuore, una Madonnina dipinta fra due santi, sotto la quale si legge; "O passeggier che vai per questa via, ricordati di me che son Maria!". A "Tassè" il panorama si svolge più largo e civettuolo, come tutti i fondo valle: San Bernardo, Piazzola in alto a destra, Rabbi Superiore in fondo, sotto i nevai della "Maleda". Sono tre gruppi, oltremodo carini e suggestivi di casette bianche e negre, scaglionate su di una vasta estensione di praterie, orlate di boschi; ogni gruppo ha il suo atteggiamento speciale, il suo modo di porgersi, come se lo sanno creare le capre sulle giogaie, le pecore sbandate per le rive del torrente, le mucche fra i meandri di un bosco basso e rado. Alcune sono come in bilico sul margine eroso di una collina, che dà la sua spaccata sul torrente e restano lì trepide di paura o per il desiderio di tuffare il loro ossame arso ed annerito, nei baci del Rabiès, fresco e cristallino. Questo ultimo tratto di Valle, certo il più bello e più composto nel suo capriccio montanaro, è inaffìato e corso da centinaia di ruscelli fontanivi.bE siamo al Rabbi dalle acque acidule ferruginose, al Rabbi degli stabilimenti, i quali però nel loro complesso danno un assieme conlfortante sotto tutti gli aspetti, anche estetico, dato l'immediato e tempestivo contatto con la musica del Rabiès e coi boschi resinosi, che scendono con le loro radici fin sotto le finestre interne degli alberghi stessi.

firma barbarani pic

 titolo barbarani divisorio


DA LA ROVINA DANTESCA DI MARCO A L'INCANTO DI TORBOLE 
Da l'articolo de la rivista "Il Garda"  del maio 1929

Poche battute di auto. Passato il vecchio confine e la diserta Ala, anelante ad un qualsiasi modesto volo pur che la si aiuti, la macchina ci porta sotto l'orrido degli "Slavini" di Marco, che a poco a poco, con fede e costanza certosine trasforma le sue rovine Dantesche in una sostanziale realtà pratica, cubando e sgrossando alla brava i massi paurosi, livellando e frangendo, per dissodare terreno e costrurre edifizi. Così lo sconvolgimento tellurico della montagna sopra Chiavenna, nella Valtellina, di fronte alla infernale Caurga, singolare miniera per trame laveggi per cucina (alla maniera dei bronzini del Cadore) tale sconvolgimento fu domato e trasformato in tanti nidi di convegno domenicale, detti "grotti", specie di cavernettebo cantine freschissime, opportunamente foggiate e custodite, dove, all'estate, le famiglie si raccolgono a merendare con un cosciotto di montone affumicato detto "violino" e un fiasco di generoso vin dello "Inferno" o della "Sassella".

In Mori ed a ricordo della distrutta fiorente borgata ora risorta a novella vita industriosa, un campaniletto tutto bucherellato da proiettili ci ricorda, come campione bellico l'attuale palazzina del dazio, appena dentro Porta San Giorgio in fianco la chiesa. Ora si corre sui bordi del laghetto di Loppio, (il primo della serie fantastica trentina, che Cesare Battisti ha elencato e amorosamente studiato) visione di malinconia e di cupo mistero, che anche di giorno non riesce a cancellare la sensazione di un notturno macabro... Ecco il palazzo dei Castelbarco coi vecchi e nuovi fastigi, la cappella e una rete di mura merlate. E di nuovo ci addentriamo fra le rovine nelle quali la strada e la ferrovia "Mori-Riva" si inerpicano verso la sommità del colle. La ferrovietta penetra impavida fra gli enormi macigni che la sorpassano talvolta in altezza, traversa svelta la candida via maestra come un lucertolone sotto il sole d'estate; poi si dilegua sparendo dentro una tana, una galleria, un corridoio di massi, la ritrova, la schiva, le si affianca fin che arriva ansimante al passo di San Giovanni. Il Santo, aspetta i pellegrini di transito, ritto in piedi su uno dei macigni più evidenti, che gli serve di piedestallo e fa un bell'effetto... Ed eccoci al Belvedere di Nago sulla conca di Riva. Riva di Trento, per questo nostro andare, la teniamo da parte. Non così la conca, che ammiriamo dall'alto della strada, che porta a Nago; Nago, dove ci si affaccia sull'azzurro, come da un balcone del cielo: Nago, bocca di sogno socchiusa sul Garda, che assiste sorridente, coi dentini italici, al solenne ingresso del fiume Sarca nel lago, da dove uscirà tramutato in Mincio. Tutta la magnificenza del Garda, per lungo e per largo, tutta la esposizione di quanto vi ha di più bello e di più santo, di più aperto o celato, di più elevato e più umile, tutto concorre quì come remeggiando con l'ala tremula per mille simboli e desideri, a codesta divina finestra. E palpitano nella conca azzurra e vi si specchiano al riposo di Torbole, i castelli, gli eremi, le pievi e i santuari, i paesi, le ville, i giardini di cedri e le vele al vento... Tutti e tutte, con le aspirazioni, i progetti utili e vasti, d'ambo le sponde, che si sforzano d'essere sorelle affettuose. Ed il Sarca, il turbolento fiume trentino, che il lago alimenta con le sue polle di vita, reca nel liquido letto tutto lo splendido orizzonte di speranze e i bisogni delle Giudicarie, importantissimo corridoio di scambio! La strada precipita verso Torbole, che si disegna sotto come un angolo di paradiso, per gaiezza e splendore di tinte e di panorama. Non vedo l'ora di conoscerla personalmente, poichè, per me, era stata come la Cenerentola nella svariata sequela di "Solitudini del Garda" alle quali dedico come posso la mia devozione di anacoreta del lago. A terra, sotto il soliudo e suggestivo porticato dell'Albergo Vittona, il proprietario Emilio Rizzi, una vecchia conoscenza della Val d'Adige, ci accoglie festosamente. Spira un'arietta pungente di sapore agresto montanino, proprio da spaghetti ed un calice di un bianco d'Oltresarca, centellinato alla "Taverna gialla" dell'albergo, ci mette in brio di conversare un poco con la gentilezza panoramica di Torbole, una delle più galanti reginette del Garda, desiderata Desdemona fra una ventina e più di... Otelli, accessibili a tutte le borse. L'albergo Vittoria, rimesso a nuovo era una volta l'antica Dogana austriaca di costruzione prettamente Veneta e tre volte secolare con mura ciclopiche e i volti bassi del portico a sesto acuto. Su di un pilastro dello stesso, scopriamo una lapidina mezzo consunta che porta scolpito: "Per le anime del Purgatorio" 1727. Ma si comprende di leggieri, che le anime purganti di due secoli or sono furono già redente in una col Trentino, perchè l'unico mezzo di sussistenza per quella povera lapide e cioè la cassetta delle ·elemosine, non esiste più da un pezzo. Immediatamente sotto all'albergo c'è il piccolo porto, dove abbiamo la fortuna di veder ballare un po' alla furlana la "Ida", "Sarah", "Lilì", "Cesarina", "Lina" che non sono altro, che delle barchette dipinte un po' vivacemente forse, come le loro madrine delle quali portano il nome, per farsi notare. Attorno la leggiadra insenatura dell'incantevole bacino si atteggiano disposti in contraddanza i suddetti... Otelli, ognuno colorito a modo suo come i barattoli di un magazzino di coloniali, ma di un effetto ottenuto e suggestivo, attraente, sul fondo degli olivi, e specchiantisi nel più puro cobalto dell'acqua qua e là brulicante di argento, come affiorassero tante sardine obbedienti al comando di quel gustoso Sant'Antonio, che si vede dipinto in fresco, del Prof. Lizmann, sulla facciata dell'antica caserma dei doganieri, adiacente l'albergo. Campeggia su tutti il Grande Hotel Torbole, del veronese e intraprendente Cav. Cirelli, che vi dedica e profonde amorose cure e tutte le modernità del comfort. Un soggiorno dovizioso e delizioso (magnifica terrazza a vetri sul lago, un parco superbo) ed assai frequentato dai forestieri nella giusta stagione.

Ed ancora il Rizzi ci indica ad uno ad uno i non più sovrastanti feroci mastini di guerra: Le "Rocchette", il "Brione" che divide Arco, da Riva, il "Civino", il famigerato "Biaena" alla loro volta dominati dall'"Altissimo di Nago" una primissima nostra conquista di guerra. Onorate l' Altissimo! Ci si additano le rovine di "Castel Perede", già dei Castelbarco - vicino a Nago ed un gruppo di vecchie case pittoresche e movimentate di pianerottoli, terrazze, antri e scalette addossate al monte. - Par de qua se va su fin a Nago! È una scorciatoia, che penetra nel cuore della parte alta del paese e risparmia una buona parte di strada.

In piazza Vittorio Emanuele al N. 41 era murata una lapide offerta dalla Società Universitaria "Goethe" sulla quale era scolpito questo passo appartenente forse alle memorie o lettere del grande Volfango: "Oggi ho lavorato al romanzo Ifigenia, in riva al lago, con un tempo bello" - 12 Sett. 1786. E più sotto: "In questa casa dimorò Goethe" - 17 Sett. 1786. La casa è in rovina. La lapide emigrò su di un arco pittoresco di adiacente fontana. Invece notiamo in paese un albergo "Ifigenia". Dopo colazione ci siamo recati a visitare la grande galleria "romana opus" che con l'enorme bocca da megafono sembra proclamare che la tanto sospirata "Gardesana" è finita! La galleria trovasi a un chilometro di lungo lago da Torbole. Oramai è questione di qualche mese per consolidarne il piano stradale. Dopo, il gran sogno della Riviera Veronese sarà compiuto. Le barriere politiche ed avverse delle muraglie montebaldine a picco sull'abisso del lago, sono cadute... ! E la marcia gardesana proseguirà laboriosa e trionfante per monti e per valli, verso le Dolomiti del "Brenta", verso il passo della Resia, dove sono le fonti del verde Adige!

firma barbarani pic

titolo barbarani divisorio

LA STRADA ARDITA CHE VA SU A TREMOSINE
Da l'articolo de la rivista "Il Garda"  del dugno 1930
(Solitudini del Garda)

La vogliamo - La faremo ....
E coi monti - La pagheremo !

Fu qualche anno prima della guerra Europea, che su la Riviera Bresciana, si mandò a compimento una assai bella, utile, straordinaria impresa, quella di collegare l'Alto Lago dal Porto di Tremosine, fino all'Altopiano omonimo composto di ben diciasette terre, di cui nessuna porta il nome del casato. La strada, superba per fattura ed ardimento, raggiunta l'altezza di Pieve che trovasi sui 340 metri a picco sul lago, prosegue fino all'estremo punto del territorio, che è Vesio a 626 metri mi mare. Due mesi dopo l'inaugurazione dell'immane lavoro, dovuto alla ferrea volontà di quella regione montanara (non per niente esistono filoni di ferro sull'altopiano) ebbi l'invito di portarmi su alla Pieve da un mio vecchio compagno di Liceo, il Dott. Luciano Turri, medico condotto lassù, il quale mi faceva pregustare una gita originale e piacevole ed egli mi sarebbe stato facile guida, anzi veniva senz'altro a prendermi giù al pontile del piroscafo. 

Un bolide sanitario e finestroni sull'azzurro
L'incontro al porticciuolo di Tremosine si svolge americanamente, poichè appena sbarcato in quella solitudine e mentre mi guardavo d'attorno, che non c'era anima viva, sento per aria uno strider di ferraglia ed una voce, festosa che mi grida: Son qua che vegno! Alzo gli occhi e scorgo l'amico dottore, che mi scendeva incontro per aria, a modo suo, giù per il teleforo delle merci, seduto su di una specie di barella appesa alle quattro catene, come il piatto di una stadera attaccata ad un gancione di ferro, che a sua volta scorre con la carrucola frenata ma con una rapidità tranquilla e costante. Ed aveva famiglia quell'uomo! 

Quando il bolide sanitario toccò terra, dopo una breve sosta alla baracca della birra, ci1 ponemmo subito per via. Di fronte a noi, sull'opposta riva, è Malcesine scura ed assonnata nel mattino con l'enorme massa del Baldo sovrastante, che ci presenta nella sua possanza, l'intero fianco destro con le alte gobbe striate di neve tardiva e lo sperone poderoso, che tiene fra le unghie l'eremo di San Vigilio. La superba passeggiata gialla, in dolce ascesa sull'azzurro del lago ci attira come scodinzolando in avanti con le lievi flessuose movenze, per poi ritornare su i suoi passi, ma più in alto, fino alle gallerie. Ma noi si preferisce prendere una scorciatoia per l'antico sentiero, fin che arriviamo alla lapide decretata alle vittime del lavoro. Dopo è un susseguirsidi gallerie lunghee dai cinquanta ai duecento passi. Codeste gaallerie hanno vasti finestroni e loggiati scolpiti nella roccia, che guardarno sul lago dall'altezza di cento cinquanta metri circa e fanno pensare a favolose e gigantesche vedette di castelli. Tali corridoi tagliati nella roccia bastano per rendere celebre nel suo pittoresco la strada di Tremosine. Ricordo, di passaggio, la galleria del Vento, che è la terza; una casetta dal tetto rosso sospesa sull'abisso è incastrata fra un masso bianco ed uno nero; ricordo l'alternarsi continuo del buio della galleriaa con il sottostante azzurro e passo come trasognato fin che mi scuote lo scroscio di una cascata!

Siamo al Ponte del Carnin (160m. sul lago) sotto cui passa e precipita il torrente "Brasa" che dà il nome alla valle. Ora la strada, piega a sinistra e procede svelta in salita, sopra robuste e ardite sottomurazioni pensili, arcuate, verso il punto più orrido del paesaggio, dove il sole e la bella vista sul lago, ci abbandonano. Entriamo nenna "Forra" un crepaccio, nel quale le rupi delle due pareti si avvicinano in alto, fino a scoccarsi un bacio umido e la strada non è larga che un quattro metri appena, dentro codesta "Forra" seguendo gallerie, frigide, gocciolanti e semibuie, dove si allungano e confondono i colonnati come in un tempio primitivo; dove il vento soffia con impeto di bufera da per tutti i pertugi ed il torrente ora ci rugge in fianco, ora ne rintrona sordamente sotto i piedi, la strada miracolosa ha dovuto con tenace lotta soffocare in certi tratti il torrente e deviarlo e imprigionarlo perfino dentro acquedotti trapanati nel sasso vivo e procedere trionfante naturalmente la Sua... strada, saltando il torrente iracondo e prepotente, che da secoli e secoli spadroneggiava in quel baratro. - E quì su questo ponte - dice il dottore - si voleva incidere il verso dantesco: "E quinci uscimmo a riveder le stelle". 

Il "girone dei violenti" e il laghetto delle "trote miniate"
La prima cosa, che si affaccia, nell'improvvisa scena, che ci si presenta è un'elegante arcata di ponte, quasi tutto in granito, sotto il qual si dispone dolcemente in salita la valletta graziosa. Per arrivare a questo ponte noi dovremo girare tutto intorno ad essa e ritornare per modo di dire sulle nostre teste. E dovremo passare altre gallerie, altri piccoli ponti, altri manufatti, ohe si dispongono a guisa di anfiteatro sui fianchi della vallea, ha un verde tenero di bosco umido e semiselvaggio ed una scorribanda di torrentelli. Ma intanto ci si eleva sempre come in sogno... E vediamo saltar su dietro il crepaccio nero dove si inabissa il "Brasa"sempre più isolate e luminose le vette del Baldo dall'"Altissimo" al "Telegrafo". E nel bel mezzo della valletta, dorme un sonno d'infanzia, il laghetto quasi artificiale alimentato dal "Brasa" e dal "Larino" e lo chiamano il lago delle "trote miniate". Anche il laghetto è una miniatura. E sembra di vederci guizzar dentro delle testatine da messale... In alto, duecento metri più in su, spicca a destra un paesino dal campanile color rosso di lampone, ma non si vede altro che questo e un pino diritto sull'angusto sagrato. È la chiesa di Voltino! Tale incanto d'acque e di i rossignoli, la verginità del luogo in contrasto con la audacia della strada, mi tengono serio ed attento a scegliermi il punto giusto per regalarmi una delle mie casette future...

- E. pensare, esclama il dottore, interrompendo il corso dei miei pensieri - che, questa valletta fu denominata il "girone dei violenti"! E perchè?
- Perchè ci volle un gran lavoro a mettere d'accordo i singoli proprietari per i diritti di espropriazione!
- Povera la mia casetta, conclusi allora fra me... Appare un altro crepaccio in vista, per il quale si fa strada ii prepotente ed irrequieto "Brasa". Un rudere di bicocca!?
- Là c'era una chioderia! - Nei tempi passati, su per il "Brasa" era tutta una serie di chioderie, fucine, gualchiere fin quasi a Vesio.
- Già! Come in Val del Zoldano, dove a batter bullette per le scarpe, voleva dir batter moneta.
Vesio, si vede da questo punto e si disegna ben chiaro. È a duecento metri più alto di Pieve.
Fu nei dintorni di Vesio, che si rinvenne una grande quantità di massi erratici di bel granito, il quale servÌ per decorar manufatti e stagliar paracarri. Ancora tre ponti sul "Larino", sulla "Forra Rambottini", sul "Brasa" e p•i, sensibilmente, abbandonata la musica delle acque ci avviciniamo alla Pieve. Quasi sull' orlo dell'altopiano ecco un lembo di azzurro profondo, che sembra donare al castello di Malcesine uno pecchio di lago ben definito, per suo uso e consumo. E rivediamo la conca della valle in basso col suo misterioso crepaccio. Possibille che esista una via d'accesso laggiù, che la vegetazione cupa nasconde qualsiasi traccia d'opera umana? Possibile che si possa sentir squillar da quel baratro una tromba d'automobile, o un tinnir di sonagliera?! Pieve è vicina! Sopra di essa, al largo, appaiono disperse le diciasette frazioni divise in quattro parrocchie. Ancora un bosco di castagni. E poi dietro un gruppetto di case salta su di slancio il pinnacolo del campanile romanico della Pieve ed un rudero di castello. Dalla oppressione del profondo, si passa all'odore di fieno segato. Qualche voce umana parla da bachi da seta. Il campanile di Pieve è dotato di campane dai polmoni robusti e quelle di Voltino annunziano il mezzodì con una arietta militare:

I bersalieri i va,
la piuma sul capel...


Ed un'altra tarantella strillano i vecchi manifestini ancora intatti sui muri del capoluogo, documenti dell'aspra lotta sostenuta da quei bravi tremosinesi, per l'esaltazione compiuta del sogno della loro strada:

La vogliamo - La faremo ....
E coi monti - La pagheremo !

firma barbarani pic

titolo barbarani divisorio


IL PAESAGGIO DI SAN ROMEDIO
Da l'articolo de la rivista "Il Garda"  del setémbre 1930
(Trentino Pittoresco)

San Zeno, corruzione di San Sisinio, è una ariosa borgateilla di trecento anime {675 s. m.) nell'Alta Anaunia (Val di Non) e fa parte di una importante collana di paesi allacciati da una provvida ferrovia, che da Dermulo, per Romeno, Cavareno, Fondo etc. sale fino al passo della M·endola. San Zeno è appunto a la seoonda stazione andando in su. Modesto, ma gustoso punto di villeggiatura, offre la mirabile visione di gran parte del Gruppo di Brenta e la prospettante vallata spaziosa, al di là dell'ardimentoso ponte di Santa Giustina, che dà le vertigini, fin su al magnifico castello di Cles ed altri molti paesi. Sotto è il Noce turbolento, che marcia per gole abissali verso l'Adige e conta fra i suoi tributari anche il Rivo di San Romedio. Detto Rivo, che si diparte dalle forre, che circondano la rupe fantastica del Santuario omonimo, gira in fianco al poggio di San Zeno donandogli grazia pittorica ed elevazione di paesaggio.

Il Santuario di S. Romedio, per la sua costruzione ed ubicazione fiabesche, è meta di continui pellegrinaggi. Vi si può accedere da Còredo, da Romeno. Ma quella di San Zeno è la più comoda e pittoresca via d'accesso, quale mi propongo di descrivere. Ed eccoci in cammino per un oretta. La chiesetta, che capeggia il sentiero, per il quale si discende al letto torrenziale del Rivo, è dedicata alla Madonna del Rosario. Assai vecchia e suggestiva per le sue ornamentazioni in legno scuro bruciato, lascia intravvedere traverso il pertugio di una grata, uno sfolgorio di vecchi altari scolpiti e dorati... - Ah, Signor - dice una voce di donna alle spalle - no i la vèrse che a la festa. Ma i la lassa andar in deperimento. E che se lo vede, che l'è fata su in antico. Una volta gh'era anca el convento coi Padri Rosminiani, e el Soteraneo, che portava drento in ciesa ... E sti palassi qua atorno i dise che i sia fin dal tempo dei Romani! Sta in fatto che nei paraggi di Sanzeno furono scoperte importanti antichità romane e la bella basilica Sisiniana, fu costrutta al posto di un tempio a Saturno. Coi primi passi giù per il sentiero campestre, sorride una casetta con la scala a giorno e la ringhiera di legno intagliato, tinta di verde. Il sottoscala, a giorno anche quello, è stipato alla lettera di legna da ardere segata al millimetro, che non ne sporge un'ombra, sì da formare come un muro tarsiato. Anche gli altri vuoti della casa, loggette o granai sono ingozzati di altra legna. E lì attiguo, su di un largo spiazzo a pianterreno, levigato come un terrazzo, ben protetto da una salda copertura, si sta battendo il grano.
- Come la chiamate voi questa specie di aia interna? - domando ad una anaunense, che sta affastellando la paglia.

- El "Somasso"! - Le galline, senza conoscere la storia di Ruth, spigolano a loro modo tutti i grani sfuggiti dal "Somasso" e se ne empiono il gozzo. Un maiale grugnisce a non si sa quale idealismo. Ecco una casetta, che si prepara impavida e serena ad affrontare i rigori del verno ... E poco lontano, il fraticello della vallata, vigila in occulto... È un San Romedio, piccolo, piccolo, intagliato in quel legno chiaro di pero o di bosso, che si usa per le tabacchiere di montagna. È incassato nel tronco vivo di un olmo e rappresenta il Santo vestito da eremita, col bordone e la zucchetta dell'acqua ad armacollo. Con la mano sinistra conduce un orso al guinzaglio e munito di museruola. Ma davvero, cche sembra proprio il coperchio di una scatola da tabacco. Sotto il quadretto sporge un ciuffo di non ti scordar di me!

È d'uopo, che proseguendo giù per la stradella, profondante verso l'alveo del torrernte, fra noci e pometi e spalliere di ortaglie, è doveroso fare un po' di presentazione di colui al quale andiamo a svegliar l'orso. Ho sottomano un elaborato e preciso opuscolo critico del Prof. Gimeppe Gerola, sulla leggenda di San Romedio, anacoreta trentirno. Da questo pregevole studio, senza entrare in merito alla questione, si apprende:
1° - Che secondo il domenicano fra Bartolomeo da Trento (Sec. XIII) il nobile Romedio da Tauro (in Val deLL'Inn) coi suoi compagni Abramo e Davide, peregrinò a Roma. E nel ritorno donò a San Vigilio tutti i suoi beni, ritirandosi quindi presso Tau (che dovrebbe essere Tavon, dove è l'attuale Santuario) a vivere da anacoreta. San Vigilio visse dal IV al V secolo.
2° - Che, nel Duomo di Trento, è ricordata in epigrafe tale donazione, comprendente terreni cospicui e mille vassalli.
3° - Che la più antica reliquia di S.Romedio è quella del teschio, che Enrico IV avrebbe donato nel l097 al convento di S. Georgenberg nella Valle dell'Inn. La testa dopo varie peregrinazioni andò a finire a San Pietro di Thaur nel Tirolo, preteso luogo d'origine del Santo e dove si venera tuttora. Ma anche a San Romedio si pretende di possedere la testa del Santo. Per cui si deve arguire che o sia la stessa testa divisa in due parti, oppure una testa sia del vero San Romedio e l'altro appartenere ad uno dei suoi fidi compagni, Abramo e Davide.
4° - Che, sull'alto della rupe Sanromediana esistette un Sacello le cui più antiche memorie sicure risalgono soltanto alla monaca Aricarda (fine del sec.XII). Niente secolo VII dunque, come si vuoi far risalire l'esistenza dell'Eremo.
5° - Che infine, in luogo di un San Romedio di Thaur, potrebbe trattarsi di un San Remigio di Reims, coincidendo perfino le due date di festività (15 gennaio - 10 ottobre) dei due santi.

Continuando la mia strada, non posso fare a meno di commentare:
- Che cosa doveva fare San Romedio, dopo aver rinunciato a tutti i beni del mondo?
- L'eremita !
- E allora, perchè togliergli anche questa soddisfazione?
Però i devoti di San Romedio non ischerzano. E attomo al primo loculo, al primo sacello, affastellano su chiese sopra chiese , fino a trasformare la rupe in un paesino incantato, un ospizio di leggenda.

Ed ecco che un altro San Romedio mi fa l'occhiolino col suo orso. Questo quì è un romita più alto, col bordone più lungo, la zucca panciuta, l'orso ammusato più grosso e ringhioso. Al ricovero di una cappellina, passa il suo tempo ad ascoltare il murmure di un ruscello, che precipita verso il fondo trascinando con sè tutta la tranquilla e segreta armonia dei praticelli
fioriti. Mi a llontano perplesso:
-Che sia San Remigio, costui? Più avanti una croce di legno, slanciata, scura, nuda, protende le sue braccia diserte dal bel mezzo di una folta ramaglia di quei lunghi aculei detti della "passione". Non c'è croce senza spine!
Sul ciglione della valle, in alto, man mano che ci avviamo verso la spaccatura della gola in fondo alla quale è appiattato l'eremitaggio, è un torneo continuo di automobili, che montano verso la Mendola; anche la ferrovia fa la sua apparizione stridendo. Poi il raccoglimento davanti un Cristo col tettuccio a triangolo e la seguente leggenda:

Gesù, da questa croce o peccator
ti chiama a se, non indurar il cor.
Promesso ha il perdono a chi si pente
ma non gli ha promesso a il dì seguente... 

Sorpassati due molini e due ponti sul Romedio, eccoci presi nella gola alta, stretta, misteriosa, con le pareti a picco, dove lo stillicidio perenne delle acque tinge la roccia viva di un rossastro acceso, misto a violetto cupo, sul fondo di ciuffi di boscaglia cedua e soffici strati muscosi. Questa specie di corridoio dantesco, che toglie il respiro, procede netto per un buon miglio, tra acque scroscianti tra i massi, che si fan sempre più grossi e rari, apparizione di Cristi stremenziti nella anfrattuosità di qualche roccia a capanna. Ed ecco che ad una svolta brusca del canale, la gola si allarga formando come una conca. Nel mezzo s'erge una rupe, sul culmine della quale li brasi la visione dell'eremo, dalla sua parte più bella, più solitaria e selvaggia; quella che ti dà il conforto di un faro, mirabile a vedersi; si chè ti coglie un fremito indefinibile, per quel silenzio supremo, per quella poesia di pace nel chiasso e nel tumulto di due torrenti che si associano, per quell'agitarsi di ramaglia, in pena, attorno la dimora di un eremita in beatitudine secolare, che dorme lassù nel suo sacello, magari con mezza testa sola e le ossa scompaginate dei suoi compagni di penitenza. Quì la rupe inaccessibile del sacrificio, nutrito di fede e di radici. Dall'altra parte, la devozione dei postulanti, la febbre della costruzione, quattro età che si sovrappongono con la cazzuola in una mano e la stampella nell'altra, per la grazia ricevuta, e scale, scalette, portichetti e stambugi con qualche lumicino in penombra, un guazzabuglio di stili, di leggende, di colori, una rara onda architettonica, che sperduta in questa solitudine, può far restar perplessi, confusi, ma piace e fa dimenticare ogni stanchezza, per chi eventualmente venga di lontano a sciogliere un voto!

Sulla facciata della tabbrica a pianterreno, si legge a sinistra su di una targhetta: " Ristorante". A destra "Priarato", sull'arco del portonee un San Romedio in tufo, col solito orso, sormontato da un grande crocifìsso policromo. Questa fabbrica ha tutta l'aria di un ospizio in grande stile ed è provvista di banchine di pietra per i pellegrini. Dentro nel sottoportico, a sinistra, una grande vasca per dissetare uomini e bestie; a destra il Privato con vendita di "Devozionali". Una scaletta da piazzaletto d'entrata porta al "Ristorante ", sito comodo e cordiale per i simposi votivi; a destra, sotto il Priorato, alcune celle numerate per i pellegrini. Ora l'aspetto generale dell'eremo, guardato da questo piazzale, risente molto d'ingenua e voluta teatralità, che pur tenendo del babelico, presenta da questa parte, un assieme di mistica e strana linea armonica, specie per la cornice selvaggia che avvolge tutti in fascio gli edifici e li innalza fino alla paurosa vetta della rupe, tra un volo di spiriti d'eremiti e stormi di Romei. L'ascesa al Santuario s'inizia con uno scalone di pietra viva, sormontato da un arco poggiato su colonne, con fìgure di Santi: a sinistra, San Romedio, e Comp. A destra, S. Sisinio e Comp. (S. Alessandro e S. Martirio). Una graziosa cuspide coperta di scandole, torreggia nel mezzo, mentre a destra su di un ripiano è disposta una rappresentazione del Mistero: "L'Adorazione nell'orto, coi discepoli", che dormono mentre Giuda in un angolo sta palpando il sacchetto dei trenta denari. E la facciata dai molteplici volti traverso le sue scritte sparse qua e là interroga: "Amice ad quid venisti?" (Che cosa sei venuto a fare?) E un'altra: "Pellegrino, a che sei venuto?" Per concludere: "Memento mori". Mentre il pellegrino monta le ripide scale e medita perplesso che cosa proprio sia venuto a fare, ogni qual tratto, solo e sperduto per quei sacri meandri, si vedono apparire dietro una grata gli orridi ceffi dei manigoldi, che presero parte alla Passione di Gesù; e più in su una selva di stampelle, ed altri arnesi di nostra tortura, fasci di piedini, di manine scolpite nel legno, perfino una dentiera. Lungo le pareti delle scale centinaia e centinaia di quadretti votivi, dove sono esposti tutti i casi di cronaca, a lieto fine, che possono fare la fortuna di un giornale di provincia. Alcuni di questi lavori ricordano con insistenza da questuante la maniera di certi novecentisti. Il sacello del santo eremita trovasi sulla parte più eccelsa della rupe e nel tempietto più vetusto, la cui volta è sostenuta da capitelli di indiscutibile vetustà romanica. Sul piccolo portale che dalla chiesa di San Michele immette nell'abituro dell'eremita, sono scolpite tre teste che dovrebbero essere quelle dei tre anacoreti Romedio e soci, Abramo e Davide. E non si va più in su. E tra i buoni pellegrini, che giungono fin qui non si discute se San Romedio sia San Remigio vescovo, o viceversa. Nè tampoco si mette in dubbio se l'anacoreta Romedio, fosse o no contemporaneo di San Vigilio, al quale aveva donato tutte le sue grandi dovizie. La leggenda popolare parla chiaro, traverso i secoli. Una mattina il santo anacoreta chiamò a sè uno dei suoi due compagni e gli disse:
- Toi, sèleme el cavàl che g'ò da andar a trovar San Vigilio che el sta mal! (sellami il cavallo). E l'altro eremita risponde:
- Ma el caval l'è sta magnà da l'orso, padre!
E Romedio:
- Ben sèleme l'orso, alora! - Il che fu, per portento, eseguito immediatamente. Ed ecco come si spiega, che San Romedio figura di portare a spasso il suo orso. Ma la leggenda non dice se sia riuscito a farlo ballare!

firma barbarani pic